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Abitazione (definizione e sviluppo)

Roma, aggregazione di tre domus tabernizzate in un frammento della Forma Urbis severiana (da Cozza L., Pianta marmorea severiana).
Roma, aggregazione di tre domus tabernizzate in un frammento della Forma Urbis severiana (da Cozza L., Pianta marmorea severiana).

Definizione-Etimologia

Il lemma, nell’accezione più estesa del termine, costituisce la forma sostantivata del verbo abitare, frequentativo di avere, il cui etimo latino habère rinvia tanto all’idea di presa di possesso di un luogo, che implica un lavoro e una tecnica correlata, quanto alla consuetudine fenomenologica con lo stesso. Questa affermazione presuppone pertanto l’idea di una modificazione responsabile in presenza del fenomeno agente, tanto sul piano delle modalità d’uso, individuali e/o collettive, quanto in relazione a quelle costruttive.

Il significato dell’abitare: le origini del fenomeno e i suoi sviluppi

Le evidenze archeologiche e gli apporti della geografia delle sedi confermano come il concetto di abitare sia riconducibile allo sviluppo di società evolute, e che, nello specifico, connoti il passaggio da una economia di raccoglitura e sussistenza, distintiva delle comunità nomadiche primitive, alla coltivazione della superficie terrestre, propria di compagini stanziali organizzate.
Tale limitazione del campo d’indagine riveste un elevato valore antropologico. Mentre la condizione di sfruttamento stagionale del contesto ambientale non ne presuppone necessariamente la trasformazione, funzionale e materiale, trattandosi del semplice utilizzo temporaneo delle risorse disponibili, nell’ovvio rispetto dei cicli riproduttivi naturali, l’appoderamento comporta inevitabilmente un’alterazione morfologica e generativa del suolo, presupponendo un sistema coordinato e continuativo di azioni tese alla massimizzazione delle opportunità latenti in funzione del raggiungimento di una finalità economica estranea, per quanto compatibile dal punto di vista geologico e climatico, al sito, che determina un’accumulazione di beni.
Per simmetrico comportamento, il passaggio occasionale sollecita la ricerca di rifugi temporanei – grotte e anfratti ipogei – sporadicamente accompagnata dal ricorso a dispositivi mobili, quali tende o attrezzature assimilabili, mentre la presenza continuativa promuove la realizzazione di involucri a carattere permanente.
Ciò premesso, si comprende facilmente come la presa di possesso di un luogo ne implichi una trasformazione necessaria, tanto morfologica quanto funzionale, che investe il sito nella sua interezza, promuovendo la realizzazione di un paesaggio compiutamente antropizzato, il cui valore non può essere ridotto alle sole ragioni “materiali”, ma implica, in quanto artefatto, ovvero costruzione di un “mondo”, una esplicita valenza estetica. A conferma di tale affermazione è opportuno ricordare come in tutte la grandi civiltà stanziali (greco-romana, cinese e indiana) il sistema di appoderamento dell’agro e quello di suddivisione dell’insediamento, rurale e/o urbano, condividano lo stesso sistema di misura superficiale, che identifica l’unità minima di sfruttamento con finalità produttiva nel lotto edilizio, comprendente l’abitazione e le correlate pertinenze.
A titolo esemplificativo, si rammenta infatti come il sistema ordinatore romano, organizzato per centuriae, si basi sull’actus quadratus, la cui dimensione lineare (60 piedi) coincide con la profondità media della domus, l’abitazione del colono, al quale vengono assegnati terreni a fronte dei servizi resi durante le campagne militari, con l’implicita finalità di garantirne un efficace presidio generale, correlato alla difesa di interessi particolari. Affinché il territorio risulti abitato, contestualmente all’insorgere di una cultura edilizia, risulta pertanto necessaria la concomitanza di un duplice ordine di fattori concorrenti: la necessità di una residenza stabile e la disponibilità di un’area coltivabile. Se, quindi, le prime forme dell’abitare risultano di origine rurale e presuppongono un forte radicamento al territorio, tanto dal punto di vista localizzativo quanto in termini di sfruttamento delle risorse ivi disponibili in qualità di materiali da costruzione, la promiscuità di uso e funzione ne costituisce il tratto pertinente.
In tale contesto, la casa a corte, nelle sue differenti accezioni areali, viene a consolidarsi quale concetto di abitazione corrente. La forte integrazione delle superfici coperte e chiuse con quelle aperte strettamente pertinenti, che svolgono contestualmente un ruolo distributivo e aero-illuminante, deriva direttamente dai condizionamenti di natura socio-economica già richiamati. Le logiche dell’autoconsumo, che governano l’organizzazione comunitaria, generano forme di simmetrica autocostruzione dell’abitare, controllate “spontaneamente” attraverso meccanismi emulativi.
I modi dell’abitare non subiscono sostanziali alterazioni nella transizione dall’insediamento rurale a quello proto-urbano. La condivisione di alcuni servizi collettivi di base stimola infatti una più razionale occupazione del suolo. All’abitato sparso subentra progressivamente la ricerca di soluzioni insediative aggregate, da concentrarsi in prossimità di intersezioni significative del sistema poderale, che impongono una standardizzazione delle dimensioni dei lotti e una regolarizzazione della relativa geometria, con fronti di accesso allineate su strada. L’eventuale nascita di un mercato, da intendersi quale luogo di scambio dell’eccedenza produttiva accumulata nel territorio con realtà altre, non necessariamente contermini, determina una evoluzione importante nel significato e nelle forme dell’abitare. L’articolazione dei ruoli sociali che ne consegue, attraverso la basilare distinzione tra produzione, distribuzione, commercializzazione e consumo, si traduce simmetricamente nella specializzazione dei concetti di casa e della relativa costruzione. Le abitazioni a corte cominciano a saturarsi, a detrimento degli spazi scoperti, che tendono progressivamente a perdere l’originaria vocazione produttiva di ascendenza rurale, limitandosi a svolgere una funzione aero-illuminante. La crescente importanza assunta dalle strade quali luoghi della contrattazione della nascente società mercantile determina una drastica riduzione delle fronti edilizie.
Il lotto gotico, nella molteplicità di accezioni geograficamente registrata, costituisce l’esito maturo del processo di progressivo frazionamento particellare delle proprietà, che porta alla nascita di case a corte-schiera e a schiera, dove quest’ultime si distinguono dalle prime unicamente per la presenza di un ambito pertinenziale a integrazione del parziale consumo delle corti originarie. L’abitazione si dispone generalmente ai piani superiori, di solito in numero di due, con zona notte sovrapposta a quella a giorno, destinando il livello terreno ad attività artigianali, di vendita o di stoccaggio temporaneo delle derrate. All’incremento delle densità in contesto urbano corrisponde una simmetrica specializzazione d’uso dei vani, del tutto trascurabile nelle abitazioni rurali a corte. Le case si articolano in stanze, disposte in ordine d’importanza gerarchicamente decrescente dalla strada verso le pertinenze individuali. Cambia contestualmente l’assetto fondiario. Nella città mercantile di tradizione europea, gli ordini religiosi assumono solitamente la proprietà e la gestione dei terreni edificabili, ceduti in diritto d’uso ad affittuari, detti “livellari”, a fronte di contratti di enfiteusi la cui natura e durata varia al mutare dei condizionamenti economico-politici. Lo stesso esercizio dell’attività edilizia si specializza, diventando prerogativa esclusiva delle corporazioni di arti e mestieri. Il consolidarsi della cultura urbana registra improvvise concentrazioni di ricchezza, che premiano le famiglie tradizionalmente dedite ai commerci più fiorenti e al prestito del denaro, generando processi di rifusione di unità abitative di rango minore, al fine di realizzare le prime espressioni compiute del palazzo, la cui nascita legittima il raggiungimento di una ulteriore soglia critica nel concetto di abitare. Talvolta il palazzo sorge, infatti, come abitazione occasionale, connessa a esigenze di rappresentatività politica e istituzionale, in una città diversa da quella d’origine o più semplicemente nella stessa, quale complemento a una residenza extra-moenia al servizio della locale aristocrazia terriera.
Questo fenomeno, ricorrente soprattutto nei primi stati nazione, quali Francia e Inghilterra, in ragione del pletorico incremento dell’amministrazione di Corte, introduce – soprattutto a partire dal XVII secolo- una significativa innovazione nel concetto corrente di abitazione: la nascita della casa in affitto. Viene così meno la relazione fondativa tra l’abitazione e il possesso del luogo, che presuppone consuetudine duratura con lo stesso, sostituito da un utilizzo temporaneo, ma soprattutto si perde irreversibilmente il rapporto diretto tra abitazione, proprietà e contesto, il cui significato profondo rinvia alla dimensione mitica dell’abitare e alle sue ritualità. L’abitazione si trasforma in appartamento, parte componente di un compendio edilizio che, nella forma esemplare dell’Immeuble de rapport francese o dello square inglese, va a sancire il progressivo divorzio storico tra residenza e lavoro nella cultura dell’abitare.
La casa in linea, erede massificata di tale processo, si avvia così a divenire il concetto di abitazione dominante nella città della Pubblica Amministrazione, fino ad assumerne i caratteri per antonomasia nella cultura borghese matura. La sovrapposizione in verticale degli appartamenti non allude più a una specializzazione per funzioni, quanto a un criterio di distinzione e segregazione dei ranghi sociali, ordinati secondo una gerarchizzazione decrescente a partire dal piano nobile, generalmente ceduto in proprietà a esponenti dell’oligarchia industriale, articolandosi nelle diverse fasce di reddito della medio-piccola borghesia impiegatizia fino alla locazione degli ultimi piani agli emarginati ed ai reietti.
La città del XIX secolo, attraverso un processo di mercificazione parallelo a quello che investe ogni aspetto della società civile, si sviluppa per addizione di quartieri funzionalmente specializzati. La stessa residenza, depauperata delle prerogative dell’abitare, si articola per ambiti socialmente omogenei. La nascente classe operaia, il cui improvviso inurbamento determina la crescita improvvisa di città dall’impianto ancora medievale, viene concentrata in prossimità degli stabilimenti produttivi secondo modalità variabili in ragione dei condizionamenti politico-economici. Se le Mietskasernen tedesche, gli Höfe viennesi e le case a blocco italiane rappresentano alcune varianti possibili del Palazzo operaio, che specializza l’isolato urbano a cortina edilizia perimetralmente chiusa sul fronte strada, annullando la riconoscibilità individuale delle originarie particelle edilizie (occupate da elementi in linea derivanti da processi di progressivo intasamento), attraverso il conferimento di una immagine unitaria che spersonalizza l’appartamento riducendolo a numero, le terraces inglesi si distinguono, anche nell’originaria versione promossa dalla speculazione imprenditoriale, sostituita dall’edilizia by law a partire dai regolamenti comunali del 1875, per il ricorso alla casa a schiera con pertinenza produttiva.
Il consolidarsi della società industriale conferma nei principi le modifiche sopraggiunte nella cultura dell’abitare. La produzione dell’alloggio in serie, variamente declinato in ragione del contesto urbano di riferimento, definisce un ampio spettro di articolazione interna i cui estremi sono idealmente rappresentati dal condensatore sociale di ispirazione costruttivista, nelle forme della DomKomuna, e dall’abitazione funzionale sperimentata secondo i principi della prefabbricazione pesante nelle Siedlungen tedesche di tradizione socialdemocratica. In questa fase giunge a maturazione il processo di sradicamento progressivo dell’abitare dal luogo, avviato con l’introduzione dell’appartamento e la conseguente perdita di corrispondenza tra costruzione e modificazione del sito. L’applicazione al tema dell’alloggio dei principi che regolano la filiera industriale, in cui la trasformazione delle materie prime in prodotto finito è ordinata secondo una sequenza di azioni elementari (teorizzata e rigorosamente codificata da James Taylor), provoca una divaricazione crescente rispetto alla produzione edilizia artigianale pre-moderna.
I prodromi di una reazione consapevole a tali effetti si sviluppano attraverso la vicenda dell’empirismo scandinavo, complice la salutare estraneità al secondo conflitto mondiale, in cui l’alloggio, senza rinunciare alla ricerca moderna di un’austera semplicità, si articola secondo scale aggregative intermedie, alternative alla schematica contrapposizione dialettica tra cellula residenziale e uniformante apparato normativo centralizzato, recuperando la ricchezza della vita comunitaria della città tradizionale la cui ampiezza di spettro varia dalle unità di vicinato ai quartieri autosufficienti. Il successo di tali precedenti condizionerà l’esperienze di iniziativa pubblica del secondo dopoguerra in tutta l’Europa della ricostruzione. Il programma INA CASA in Italia, le new towns di seconda generazione in Inghilterra, i polders di nuovo impianto in Olanda, i quartieri satelliti del fingerplan in Danimarca sono casi esemplari di sperimentazione sul gradiente dello spazio pubblico, attraverso l’ideologia del vicinato, delle neibourough units e dei clusters, condotti riabilitando l’integrazione dei modelli residenziali – case a schiera, in linea, a ballatoio e a torre – e delle funzioni complementari alla residenza.
Tuttavia, solo a partire dalla seconda metà degli anni ’70 tale ricerca riuscirà a innestarsi in un ripensamento complessivo del significato dell’abitare la città nel suo più ampio contesto territoriale. Una riconquistata consapevolezza del rapporto tra morfologia urbana e tipologia edilizia, alimentata dagli studi pionieristici condotti in Italia a partire dalla prima metà degli anni ’50, determina casi esemplari di riprogettazione della città pre-moderna, all’interno di comparti strategici liberati dai processi di delocalizzazione delle attività produttive conseguenti alla ridefinizione della geografia economica propria del climaterio postindustriale. Attraverso il fertile confronto tra modalità abitative afferenti a diversi statuti, culturali e normativi, cresce la consapevolezza del significato profondo dell’abitare i luoghi, che non può essere ideologicamente ridotto alle sole “condizioni della produzione”, come implicitamente sostenuto nelle diverse espressioni del welfare, che riabilita modalità insediative ricorrenti nel tentativo di riproporne, forse non senza una certa ingenuità, memore dell’ingegneria sociale moderna, la dimensione comunitaria.
Gli ultimi due decenni, in evidente antagonismo alle vicende poc’anzi descritte, destabilizzano le certezze solo in apparenza recuperate. L’allargamento dei mercati e l’esponenziale dilatazione delle relazioni commerciali e culturali, unitamente alla sostituzione del capitalismo industriale con quello finanziario, i cui effetti non hanno ancora esaurito le propria spinta propulsiva, indipendentemente dal giudizio di merito che se ne possa dare, sovvertono l’illusione di una rinnovata alleanza tra localismo e modificazione. Una geopolitica di scala globale accomuna le vicende di realtà tra loro distanti, alterando la percezione di uno spazio eccezionalmente dilatato attraverso la contrazione del tempo, resa possibile dall’incremento senza precedenti dei collegamenti veloci di lungo tragitto, che sostituiscono l’esperienza della continuità con il pensiero della discontinuità.
L’abitare contemporaneo è alla ricerca di nuove categorie e modi dell’abitare. La sperimentazione in corso più avanzata opera attraverso concetti di abitare riconducibili alle nuove forme di nomadismo del terzo millennio. Nella “società liquida”, parafrasando Zigmunt Bauman, il sistema delle opportunità discrimina peraltro coloro che hanno la possibilità di praticare consapevolmente l’erranza, professionale e culturale, dagli individui che, nella indisponibilità al movimento, risultano “inconsapevoli prigionieri” di una stanzialità coatta, condannati pertanto a una condizione di emarginazione, economica e sociale. La ricerca attuale sembra pertanto nutrirsi dell’ibrido, attraverso la programmatica destabilizzazione di ogni relazione armonica tra abitazione e modificazione del contesto di appartenenza, come dimostra con grande efficacia, ad esempio, la sperimentazione condotta dall’Atelier Bow-How sui tessuti urbani di Tokio.

Caratteri distributivi dell’abitazione e rapporti con la forma urbana

L’abitazione, nella sua originaria accezione rurale, si configura come casa a corte. Il suo impianto tipologico, riconducibile a un recinto entro cui uno spazio elementare coperto e chiuso si integra con un ambito minimo produttivo, viene fortemente condizionato dalla necessità di integrarsi con elementi simili all’interno di un tessuto compatto. Ciò determina la standardizzazione delle misure, lineari e superficiali, e dell’orientamento solare, finalizzati alla ottimizzazione delle condizioni di aggregabilità. Tale fenomeno risulta facilmente riscontrabile nella transizione dall’aggregato sparso dell’agro romano al vicus rurale, riproducendo logiche simili a quelle della Magna Grecia.
Il consolidarsi dell’insediamento urbano attraverso il raggiungimento di varianti complesse del tipo a domus, e il conseguente ruolo assunto dalla strada quale fattore prioritario di accessibilità e scambio, comporta un adattamento dell’abitazione alle mutate condizioni d’uso. L’orientamento prevalente dei lotti è subordinato alla necessità di garantire un affaccio sulla via al maggior numero possibile di abitazioni, che giustifica il ricorso a una prevalente dimensione longitudinale rispetto a fronti edilizie molto contenute. Le murature d’ambito della casa si identificano pertanto con i limiti particellari, entro i quali si dispongono i vani abitabili in sequenza lineare gerarchicamente ordinata, dallo spazio pubblico verso quello privato, con inserimento di idonei cavedi per garantire adeguate condizioni di aerazione e illuminazione. Il progressivo aumento della densità edilizia determina processi di soprelevazione e intasamento degli originari ambiti pertinenziali, producendo tipi a schiera che, nella varietà delle soluzioni conformi ai condizionamenti areali (che incidono prevalentemente nel posizionamento dei vani scala e nella diversa natura dei materiali utilizzati) mostrano una vitalità inesauribile, capace di adattarsi alle mutazioni del costume fino alla rivoluzione borghese illuminista, senza apprezzabili variazioni di consistenza. I caratteri tipologici della casa a schiera permettono di ottenere trame edilizie complesse, nel rispetto della orditura dei percorsi, la cui funzione si differenzia in rapporto alla gerarchia di ruolo (di connessione territoriale, di impianto urbano e di collegamento locale). Ciò giustifica l’estrema varietà risultante dei tessuti urbani delle città. Il rispetto di pochi e semplici principi permette infatti di adattare i sistemi lottizzativi al carattere naturale dei siti, producendo una morfologia urbana dagli esiti molteplici quanto imprevedibili.
I processi di rifusione generanti le prime case in linea, pur congestionando i tessuti esistenti attraverso la progressiva alterazione del rapporto originario tra pieni edilizi e vuoti pertinenziali, non modificano le caratteristiche dell’impianto. Semmai, agendo talvolta in termini di semplice plurifamiliarizzazione di una precedente abitazione a schiera, eventualmente incrementata in profondità, generano interessanti fenomeni di “insulizzazione” del lotto, cosicché l’isolato risultante si trasforma in “tessuto di tessuti”, in parziale reciproco antagonismo. Durante l’epoca rinascimentale, si può assistere a una specializzazione di tessuti residenziali, che acquistano le valenze di compiute architetture a scala urbana. Le Places Royales francesi (Place Dauphine, Parigi, 1606 e seguenti; Place des Vosges, Parigi, 1605-1612; Place Royale, Nancy, 1753-1755), le Plazas Mayores spagnole (Plaza Mayor, Madrid, 1617 e seguenti; Plaza Mayor, Salamanca, 1676-1750) piuttosto che gli eleganti square e circus inglesi (Coven Garden, Londra, 1631; Royal Circus, Bath, 1754 e seguenti; Royal Crescent, Bath, 1767 e seguenti; Charlotte Square, Edimburgo, 1791), non innovano i caratteri distributivi del tipo a schiera rispetto alla produzione corrente, esasperandone semmai la specializzazione di ruolo dei vani, che proliferano in maniera talvolta ridondante (si pensi alla casa a schiera Georgiana in rapporto a quella di epoca Tudor), modificandone la leggibilità, gerarchicamente standardizzata nei moduli e nei registri espressivi, in funzione dell’unità architettonica d’insieme.
La persistente continuità dei tipi edilizi a schiera e in linea subisce una brusca interruzione nel corso del XIX secolo, quando gli effetti della rivoluzione borghese giungono a piena maturazione. La trasformazione delle città esistenti (la cui conservatività d’impianto medievale non risulta alterata dalle limitate sperimentazioni prospettiche), condotta attraverso il ricorso sistematico a percorsi di ristrutturazione, esaspera l’irregolarità dei lotti risultanti, incrementando in maniera considerevole il numero di varianti sincroniche del tipo corrente. L’applicazione congiunta di una manualistica astratta e dissonante rispetto ai prodotti edilizi locali, di vaga reminiscenza eclettica e storicista, unita all’ingresso nel mercato immobiliare della figura dell’architetto dilettante, spesso offre il campo a una sperimentazione incontrollata, i cui effetti sono in parte contenuti dal limitato numero di varianti socio-tipologiche e dalla relativa stabilità del rapporto tra altezza dei fabbricati e sezione stradale.
Archiviata la fase di messa a punto di nuovi modelli abitativi nel Garden Cities Movement inglese o nel Gartengesellschaft tedesco, in cui prevale l’interesse per una colta reinterpretazione di modelli rurali autoctoni (rispettivamente cottages e Hütten), immersi in un’atmosfera volutamente pittoresca, in polemico antagonismo con le metropoli industriali di riferimento, quanto aggiornati nello standard e nelle finiture di sincero gusto borghese, l’innovazione del rapporto tra morfologia urbana e tipologia edilizia subisce una improvvisa accelerazione nella sperimentazione avviata nei nuovi quartieri operai delle grandi città industriali. Così come la ricerca sull’alloggio è portata all’identificazione dei requisiti funzionali minimi che consentano la definizione di un’unità elementare dotata di compiuto significato spaziale, la ricerca di un analogo alla scala del tessuto edilizio porta alla progressiva dissoluzione dell’isolato urbano perimetralmente chiuso. La semplice reiterazione seriale di elementi a schiera o in linea, identicamente orientati nel rispetto dell’asse eliotermico, si sostituisce pertanto con rare eccezioni all’inesauribile varietà degli spazi della città tradizionale, evocando nell’allusione alla semplicità e allo schematismo delle colonie rurali, agli albori della civiltà, una simmetrica ansia rifondativa.
Per quanto l’ideologia del quartiere sopravviva fino agli anni ’60, la progressiva contaminazione dei tessuti edilizi tradizionali con i caratteri distributivi dell’abitazione moderna, sempre più pervasiva a partire dal secondo dopoguerra, ne produce un indubbio rinnovamento, puntualmente registrato da fenomeni quali il cosiddetto Neorealismo italiano e l’Empirismo scandinavo. I forti cambiamenti negli stili di vita, amplificati dall’improvviso inurbamento e dalla necessità della ricostruzione, offrono la possibilità di una forte sperimentazione tipologica. Case a schiera, in linea, a ballatoio e a torre concorrono alla costruzione di un “effetto città” che accelera, in termini rappresentativi, la trasformazione in atto nelle aree di nuova espansione (ovvero il passaggio tumultuoso dalla cultura rurale a quella urbana), che agiscono quali laboratori di sperimentazione delle pratiche reali operanti nei tessuti urbani di più consolidata tradizione.
Il dibattito sulla grande dimensione, che intende pervadere l’intero territorio di qualità urbana, superando l’antagonismo tra città e campagna generato dall’accumulazione squilibrata di addizioni edilizie seriali specializzate, introduce nuovi gradi di libertà nel rapporto tra abitazione e forma della città. L’immaginario “megastrutturale”, reinterpretando le visioni preconizzatrici contenute nell’Unitè d’Habitation di Le Corbusier, che anticipa il senso dell’ibrido architettonico, estende la sperimentazione all’identificazione dell’unità minima dotata di significato urbano, nella quale l’abitazione raramente ritrova il giusto grado di varietà tipologica al fine di reiterpretare la complessità della città reale, annullandosi nell’anonimato ideologico promosso dalla cultura uniformante del Welfare.
Alla fine degli anni ’70, riconosciuta l’illusione, anche a prezzo di drammatiche conflittualità interne, di poter ricondurre le dinamiche della società contemporanea alla semplice contrapposizione di classe, con gli inevitabili schematismi interpretativi che ne conseguirono, prevale l’accettazione della multiforme varietà degli stili di vita, che si traduce nella riscoperta dell’inesauribile vitalità delle forme urbane tradizionali, nella diversità delle accezioni geografiche, e del relativo ampio spettro di soluzioni tipologiche. Il passaggio dalla “casa per tutti” alla “casa per ognuno”, parafrasando Ernesto Nathan Rogers, si traduce con una riscoperta dei luoghi, per quanto talvolta superficiale. L’esperienza dell’IBA di Berlino, delle ZAC parigine, dei Docks londinesi e della rinascita Barcellonese sono, in questa prospettiva, emblematiche. La riscoperta dei caratteri della città europea, fino alla fine degli anni ’80, pare così essere un trend inarrestabile.
La fase contemporanea si apre con la crisi dell’eurocentrismo di cui è responsabile l’allargamento senza precedenti dei mercati, attraverso il passaggio dal capitalismo industriale a quello finanziario. Le reti urbane internazionali e le capitali globali mostrano un vitalismo senza precedenti, capace di scardinare tutte le certezze ricevute, aprendo a un’inedita fase di sperimentazione tuttora in corso. Contaminandosi gli stili di vita, si ibridano i modelli abitativi e urbani. La dinamiche localizzative, privilegiando gli hubs in grado di moltiplicare le opportunità individuali, attraverso la facilitata accelerazione delle connessioni e degli spostamenti, di beni, persone e informazioni, discriminano il successo delle iniziative immobiliari, stabilendo antagonismi continui, tra città differenti e tra costrutti edilizi all’interno della stessa città, puntualmente evocati dalla bigness koolhaasiana, sulla base di aggressive politiche di marketing. L’abitazione perde i tradizionali confini normativi, così come difficile risulta descrivere il funzionamento della città in termini di armonica collaborazione tra scale d’intervento (architettonica, edilizia, urbana e territoriale), ancora preconizzata nella modellistica del Moderno, mentre viene de facto ampiamente sfiduciata l’idea di città “per parti” a favore di una necessaria visione olistica della realtà che ne sappia restituire in termini rappresentativi l’implicità articolazione. Esemplare, in tale prospettiva, l’intervento De Citadel (2000-2006) di Christian De Portzamparc nel quadro della rivitalizzazione del centro di Almere su Masterplan di OMA. In tale situazione complessa, l’obiettivo diventa quello di garantire condizioni di scambio tra livelli locali e internazionali, trasformando gli antagonismi presenti in opportunità future.
Tra gli scenari possibili, il richiamo alla sostenibilità delle scelte e alla riduzione dei consumi energetici, che per il 50% sono imputabili su scala mondiale al settore edilizio, può alimentare una profonda revisione dei caratteri tipologici dell’abitare e delle contestuali scelte localizzative. Relativamente alle prime, si ricordano

  • l’importanza dell’orientamento rispetto a sole e vento, per massimizzare l’uso di sistemi attivi e passivi di sfruttamento dei relativi apporti;
  • il controllo qualitativo dell’involucro e della relativa permeabilità e compattezza in funzione dell’esposizione, finalizzata al controllo delle dispersioni;
  • la revisione degli impianti distributivi, per migliorare la capacità di accumulazione e/o protezione dal gradiente di escursione termica.

Esemplare, in tale prospettiva, l’intera produzione abitativa dell’austriaco Georg Reinberg e dell’australiano Glenn Murcutt. Da un punto di vista insediativo la nuova sensibilità ecologica promuove la ricerca di una forte densità, finalizzata alla riduzione del consumo di suolo, assimilato a risorsa naturale non riproducibile, integrando diverse soluzioni tipologiche secondo relazioni spaziali inedite; la vicinanza alle stazioni del sistema di trasporto pubblico, chiamate a garantire un’adeguata offerta intermodale; l’integrazione funzionale, subordinata alla necessità di ridurre gli spostamenti individuali. Il progetto radicale per la Market Hall di MVRDV nell’area del Blaak a Rotterdam (in corso di realizzazione) ne rappresenta un esito particolarmente interessante.

Bibliografia

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Bath (Gran Bretagna); Kings Circus, J. Wood il Vecchio, 1754-68.

Bath (Gran Bretagna), veduta aerea del Kings Circus, J. Wood il Vecchio, 1754-68.

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