La base raccorda il fusto con il piano d’appoggio, assume diverse forme e può anche mancare. Oltre ad avere una funzione estetica, contribuendo ad aumentare l’altezza della colonna, ha una funzione statica, in quanto aumenta la superficie di appoggio e, pertanto, incrementa la stabilità.
Il fusto (o corpo o tronco) costituisce la parte più importante della colonna. Approssimativamente cilindrico, spesso è rastremato verso l’alto, più raramente verso il basso, e talvolta presenta nella sua parte mediana un rigonfiamento detto éntasis, che ha lo scopo di enfatizzare la funzione statica della colonna appesantita dagli elementi architettonici ad essa sovrapposti. La superficie può essere liscia, poligonale, scanalata, talvolta a spirale. Se di pietra, il fusto può essere monolitico, cioè formato da un solo pezzo, oppure suddiviso in più pezzi che sono detti rocchi o tamburi, o anche conci, nei casi di sezione squadrata. Con il termine snellezza si indica il rapporto tra il diametro della base del fusto e la sua altezza: nell’architettura classica tale rapporto ha avuto rilevante importanza sia da un punto di vista statico che estetico ed è variato, con buona regolarità, da 1/8 a un 1/10 a un 1/12 passando dal dorico allo ionico al corinzio.
Il capitello collega il fusto alle membrature soprastanti e funge da appoggio degli elementi strutturali. Talvolta serve a ridurre la luce degli architravi e delle piattabande che collegano le colonne tra di loro. Esistono diverse forme di capitelli, da quelle dell’architettura greca classica, distintive dei vari ordini architettonici, alle soluzioni più varie e decorate. Talvolta, sotto il capitello, è presente un collare.
Utilizzo nell’architettura
Unite in serie, le colonne formano colonnati; a coppie definiscono portali o segnano punti di passaggio; isolate, talvolta sovrastate da statue, segnano punti particolari o hanno funzione celebrativa. Strutturalmente, negli edifici, la colonna ha lo scopo di sostenere i pesi delle parti sovrastanti e degli elementi di copertura degli intercolumni: architravi, piattabande o archi; lavora prevalentemente a sforzo normale, come una biella, in quanto, data la propria snellezza, non è in grado di contrastare efficacemente azioni orizzontali. La distinzione tra colonna e pilastro è ricondotta solitamente alla diversa forma della sezione trasversale, che sembra essere il principale elemento di discriminazione. Di fatto i due termini sono in genere associati a due diverse funzioni statiche, in quanto il termine pilastro è spesso riferito ad un elemento costruttivo in grado si sopportare anche sollecitazioni flessionali.
I meccanismi di crisi statica di una colonna sono prevalentemente prodotti da fenomeni di schiacciamento, per carico eccessivo, o da fenomeni di rotazione, per la presenza di azioni orizzontali. Nel primo casi la crisi è segnalata da lesioni verticali; nel secondo da scheggiature inclinate in corrispondenza della base o della sommità. In entrambi i casi il consolidamento può essere effettuato con cerchiature: nel primo caso, in modo diffuso sul fusto, nel secondo caso, con anelli posti alla base e in sommità.
Bibliografia
Acocella A. (a cura), L’architettura di pietra: antichi e nuovi magisteri costruttivi, Firenze, 2004; Mastrodicasa S., Dissesti statici delle strutture edilizie. Diagnosi, consolidamento, Istituzioni Teoriche, Milano, 1993.
concio) di pietra alternati con mattoni crudi, tenuti insieme da una malta embrionale, che consentono la convergenza dei conci al centro di curvatura, e in altri esempi dell’area mediorientale; ma le più antiche strutture che applicano il sistema dell’arco a conci radiali sono precedute da altre (pseudoarchi), ottenute sia con uno o due grandi blocchi accostati e scavati a sagoma curvilinea, sia con materiali di taglia modesta, a letti orizzontali progressivamente aggettanti. Queste tecniche continuano a essere usate anche successivamente alle esperienze a conci radiali ricordate, confermando che l’arco non è il risultato dell’intuizione delle sue proprietà statiche, ma più genericamente una forma connessa all’esigenza di coprire una luce rilevante.
L’impiego, nelle coperture, di pseudoarchi e archi parzialmente non spingenti ha anche il fine, in aree povere di legname, di evitare le centine. A questo scopo un’altra tecnica adottata è costituita da una serie di archi a conci disposti su un piano non verticale ma inclinato, appoggiati l’uno sull’altro e infine al muro di fondo dell’ambiente, sul quale si scarica il peso di ogni singolo strato.
In Egitto, come pure in Mesopotamia, dove le prime testimonianze di archi sembrano risalire al VI millennio a.C., questi tipi di coperture ad arco sono utilizzati esclusivamente in ambito funerario o per ambienti secondari, quali cunicoli, corridoi o magazzini.
I greci conobbero, accanto ai vari tipi di pseudoarchi, l’archi a conci, del quale, come riferisce Seneca, sarebbe stato inventore Democrito (V secolo a.C.), ma il cui impiego è documentato, su base archeologica, solo dagli ultimi decenni del IV secolo a.C., nelle tombe a camera macedoni (tomba regale di Verghina, circa 336 a.C.), nelle porte di cinte murarie (Eniade in Acarnania), e in coperture di cisterne, corridoi o disimpegni di teatri, stadi e complessi religiosi. Si riscontra anche l’impiego di archi ciechi affiancati, a sostegno di un pendio o di strutture soprastanti (fortificazioni di Perge in Pamphilia).
Nell’Italia meridionale greca e sannitica l’uso dell’arco a conci viene introdotto in costruzioni tombali a camera agli inizi del III secolo a.C.; è discussa l’attribuzione alla metà del IV secolo a.C. (contemporanea alle più antiche esperienze macedoni) della cosiddetta Porta Rosa di Velia. Certamente del IV secolo a.C. è la volta della tomba di Charun presso Cerveteri, che attesta la precoce introduzione delle strutture ad arco in Etruria, mentre la Porta dell’Arco di Volterra e le porte di Perugia, per le quali è stata proposta una datazione alta, sono oggi ritenute del II secolo a.C. Scarsa, per l’architettura etrusca, la documentazione relativa alle costruzioni civili, ma è integrata da rappresentazioni scolpite o dipinte.
Per l’architettura romana, l’impiego di strutture ad arco è documentato intorno alla metà del III secolo a.C. in porte urbiche (Cosa), ponti e viadotti, ma è nel secolo seguente che le strutture ad arco trovano applicazione generalizzata, estesa alla copertura di ampi ambienti interni (Porticus Aemilia, 193-174 a.C.), grazie alla tecnica dell’opus caementicium, diventando una caratteristica basilare delle maggiori realizzazioni architettoniche romane.
Il trapasso dell’arco da elemento tecnico e utilitario a motivo strutturale monumentale si compie con la sua integrazione al sistema trilitico, negli edifici con facciata costituita da una serie di archi su pilastri, ma inquadrati da semicolonne che sorreggono una trabeazione applicata alla parete. Il motivo, già presente nei santuari laziali della fine del II secolo a.C., e, a Roma, nel Tabularium (78 a.C.), diventa la soluzione ricorrente per definire grandi superfici esterne, anche sviluppate su più piani, e trova applicazione negli archi onorari e negli ingressi monumentali.
In seguito, nel medio e tardo impero, gli archi sono impostati direttamente sulle colonne (Foro e Via Colonnata di Leptis Magna, peristilio del Palazzo di Diocleziano a Spalato), o con l’interposizione di un elemento di architrave (Santa Costanza a Roma). Una soluzione particolare è rappresentata dall’architrave che si interrompe piegandosi in forma di archi (il cosiddetto frontone siriaco, nel tempio di Adriano a Efeso).
I romani hanno usato essenzialmente l’archi semicircolare (a tutto sesto); l’arco ribassato o segmentato, la cui forma è data da un segmento di circonferenza, trova applicazione in casi particolari, come le finestre termali, e negli archi di scarico per i quali è frequente anche la piattabanda.
Le culture architettoniche che di Roma raccolgono l’eredità adottano anche varianti e forme diverse: i bizantini fanno largo uso di archi a tutto sesto su piedritti rialzati, impiegati anche dagli arabi insieme all’arco a ferro di cavallo, specialmente diffuso in Spagna e Africa settentrionale; l’arco ellittico e quello ribassato policentrico sono poco usati nell’architettura tardo-antica e medievale, ma troveranno maggiore successo nel Rinascimento e nel Barocco, in particolare nella costruzione di ponti in muratura.
Gli archi acuti sono costituiti da due tratti di circonferenza, i cui centri sono posti sul piano della corda, a distanza variabile dall’asse, che ne determina la forma più o meno allungata: archi acuti equilateri, se i centri di curvatura coincidono con i punti d’imposta; compressi se interni alla corda; a lancetta se esterni; lanceolati, quando inoltre si trovino sopra il piano d’imposta.
L’impiego degli archi acuti, a parte l’esempio precoce di Qasr-Ibn-Wardan (561-564), è fatto risalire all’architettura islamica del secolo VIII; queste forme si diffondono in Italia e in Europa intorno all’XI secolo, ma l’uso sistematico che ne fanno i costruttori gotici, a partire dagli inizi del XII secolo, è il frutto di osservazioni autonome sui vantaggi pratici nella realizzazione delle volte a crociera e sul contenimento della spinta, offerti da questo tipo di arco, come testimonierebbero le formule pratiche e i tradizionali procedimenti grafici di dimensionamento dei piedritti, noti attraverso la letteratura posteriore, ma probabilmente in uso già in epoca medievale.
Forme particolari sono l’arco falcato (conci di altezza crescente dall’imposta alla chiave), o l’arco senese (con intradosso a tutto sesto ed estradosso acuto). Altri tipi di archi policentrici sono stati impiegati per motivi formali e di gusto: l’arco polilobato, con intradosso costituito da una serie di archetti (lobi) i cui centri di curvatura sono posti ad altezze diverse, indica in genere influenze arabe; l’arco trilobato, presente in una grande varietà di forme, è ampiamente usato, nel tipo con archetto centrale acuto, per finestre, porte e decorazioni del gotico rayonnant; l’arco inflesso (in inglese ogee arch), a quattro centri e profilo concavo-convesso-concavo, di origine orientale e introdotto in Occidente attraverso Venezia, si afferma in Inghilterra con il decorated e si diffonde con il tardogotico, anche nella variante a profilo convesso-concavo-convesso (arco a fiamma, in francese arc en doucine), variante usata soprattutto nei trafori delle finestre. L’arco inflesso si arricchisce poi con l’immissione, tra i principali tratti curvilinei, di altri lobi e segmenti rettilinei, che ne complicano il profilo. Un’ulteriore variante è l’arco Tudor, con archivolto costituito da due archetti concavi raccordati da due tratti rettilinei (o da due tratti di circonferenza con raggio di curvatura molto ampio), uniti a cuspide, tipico dell’architettura inglese dal XV al XVIII secolo.
L’architettura moderna, dopo il periodo storicista ed eclettico, con l’introduzione delle nuove tecniche costruttive e dei nuovi materiali, ha abbandonato nell’architettura corrente l’uso dell’arco, il cui impiego rimane limitato alle grandi strutture (ponti, viadotti ecc.), e ad alcune opere di particolare significato simbolico e monumentale.
Bibliografia
Bettini S., L’architettura di San Marco, Padova, 1946; s.v. Arco, in Enciclopedia dell’arte antica, Secondo Supplemento 1971, Roma, 1994, pp. 344-354.
concio), che si trasmettono le forze per attrito o contatto reciproco, per interposizione di materiale legante, per introduzione di perni e staffe o per incastro.
Si definisce asse dell’arco il luogo dei baricentri delle sezioni costituenti, e la sua forma, insieme ad altri parametri (corda, freccia e spessore), è un elemento essenziale per definire l’effettiva capacità dell’arco di sopportare i carichi.
L’arco si sviluppa a partire dalla sua base (imposta), che è la superficie d’appoggio sui piedritti, lungo il suo asse, fino alla chiusura in chiave (o serraglio) attraverso un concio (chiave) geometricamente coincidente con il vertice, che viene posto in opera per ultimo garantendone la stabilità (centina, concio).
La struttura ad arco è compresa tra la superficie di intradosso (interna, detta anche imbotto o sottarco) e quella di estradosso (esterna).
La distanza tra i punti estremi delle sue linee d’imposta si dice corda (luce, ampiezza, portata o sottesa), ed è un importante parametro per la stabilità dell’arco, insieme alla freccia (monta o saetta) che ne definisce l’altezza.
Si definisce piano d’imposta dell’arco il piano contenente le sue linee d’imposta o anche la superficie (piana o inclinata) della faccia superiore del concio da cui l’arco si sviluppa (peduccio o pulvino).
Lo spessore di un arco, non necessariamente costante, è definito come la distanza tra intradosso ed estradosso, misurata sull’archivolto; tale misura può variare tra imposta e chiave (ad esempio nell’arco senese).
La superficie ideale compresa tra linea d’intradosso e linea d’imposta viene detta specchio dell’arco e qualora sia cieca o murata si definisce lunetta, mentre si chiama sopraporta o soprafinestra nei casi in cui sia integrata negli infissi che chiudono l’apertura.
Tipologie
Considerando l’andamento della curva d’intradosso in relazione al proprio sesto (o profilo) definito come rapporto tra freccia e metà della luce, gli archi si distinguono in: archi a tutto sesto (pieno sesto o pieno centro, tondi) in cui la freccia è pari a metà della luce e la curva d’intradosso è una semicirconferenza; archi a sesto rialzato (eccedente o oltrepassato), la cui freccia è superiore a metà corda (archi a ferro di cavallo, archi a sesto acuto lanceolati, archi polilobati, archi con curva d’intradosso composita inflessi o carenati); archi a sesto ribassato (scemi, tondi ribassati, a monta depressa, schiacciati o diminuiti), il cui intradosso è un tratto di semicirconferenza con il centro a quota inferiore alle imposte e con freccia inferiore a metà corda (archi rovesci). Gli archi policentrici, composti, asimmetrici, derivano la loro forma dalla posizione dei centri di curvatura che possono essere lungo la linea d’imposta (arco acuto), sopra di essa (arco lanceolato), in bande opposte rispetto all’intradosso (arco inflesso o carenato) o ad altezze diverse (arco polilobato). Per ciascuno di questi archi diversi sono i metodi di tracciamento e di costruzione.
A seconda delle caratteristiche e della posizione delle linee d’imposta gli archi possono essere retti (linee d’imposta normali alle fronti) o obliqui (non perpendicolari alle fronti). Gli archi rampanti hanno linee d’imposta parallele ai fronti ma inclinate rispetto all’orizzontale mentre negli archi zoppi (o a collo d’oca) queste sono parallele tra loro e orizzontali ma a quote diverse. A seconda che abbiano una sola o diverse curvature, tra loro raccordate, gli archi si distinguono in continui e discontinui.
Funzionamento statico dell’arco
La parte di muratura appoggiata all’estradosso, in corrispondenza dei fianchi (o reni) dell’arco, è detta rinfianco e ha funzione di rinforzo. Procedendo verso gli appoggi, generalmente aumenta la sezione resistente dell’arco, in considerazione dell’aumento del carico applicato passando dalla chiave alle reni. La linea delle successive risultanti, detta anche curva delle pressioni, caratterizza ogni arco e la sua determinazione è necessaria per la verifica della sua stabilità. Tale linea visualizza il modo in cui le forze si trasmettono tra i singoli conci e la sua curvatura dipende dalla configurazione dei carichi gravanti sull’arco (pesi propri e sovraccarichi) oltre che dalla geometria dell’arco stesso.
La coincidenza tra asse dell’arco e curva delle pressioni garantisce che le forze scambiate tra i conci costituenti siano semplicemente di compressione in ogni sezione; maggiore è la distanza tra le due curve e più la risultante dei carichi in ogni sezione risulterà inclinata rispetto alla perpendicolare condotta per il piano della sezione stessa, e lontana dal suo baricentro, determinando l’insorgere di un momento flettente.
Per la soluzione statica dell’arco il metodo più usato è quello grafico, che consiste nella costruzione del poligono funicolare del sistema di vettori rappresentanti i pesi dei singoli conci, imponendo il suo passaggio in chiave e alle reni per le cerniere individuate sperimentalmente da Mery (poste tra i 30° e 45° a partire dall’orizzontale, a seconda della geometria).
Analiticamente, la struttura, iperstatica, si risolve determinandone le reazioni vincolari sui piedritti, imponendo l’equilibrio esterno, e quindi esaminando le sollecitazioni sulle singole sezioni (momento flettente, sforzo di taglio e sforzo normale) dopo aver introdotto alcune ipotesi semplificative che fanno capo alla simmetria della struttura e alla posizione delle cerniere (arco a tre cerniere, staticamente determinato, la cui soluzione viene definita attraverso il tracciamento di un poligono funicolare che connette i carichi applicati e passa per tre cerniere). Il comportamento dell’arco tradizionale (compresso, in muratura) deve essere distinto da quello costituito da una fune flessibile alla quale sono applicati i carichi (teso, come nel caso della catenaria o dei cavi nei ponti sospesi) la cui soluzione statica è relativamente recente (i maggiori sviluppi sono dovuti agli studi di L.F. Menabrea e di A. Castigliano).
Bibliografia
Photogallery
Benvenuto E., La scienza delle costruzioni nel suo sviluppo storico, Firenze, 1981; Choisy F.A., L’art de bâtir chez les romains, Parigi, 1873; Giuffré A., La meccanica nell’architettura, Roma, 1986.
Tecnica direstauro, generalmente utilizzata in campo archeologico, consistente nella ricostruzione di strutture o edifici realizzati a secco (assemblaggio a secco), vale a dire con blocchi di pietra da taglio montati senza malta e che garantiscano la contiguità, non necessariamente la completezza, dei pezzi da rimontare. Questi ultimi potranno anche risultare mutilati, ma non tanto da impedirne una ricollocazione in qualche modo “certa”, basata sull’evidenza materiale e non su ipotesi, confronti con altri monumenti o ragionamenti analogici. A tal fine, i singoli pezzi andranno scrupolosamente rilevati e studiati nelle loro qualità geometriche e materiali.
L’anastilosi, quindi, si distingue da un più generico processo di “ricostruzione”, parziale o totale, di un monumento e si apparenta piuttosto alla “ricomposizione” dei frammenti di una statua in marmo o di un antico vaso in vetro o ceramica. Anche qui l’elemento distintivo consiste in un rimontaggio dei pezzi guidato dalla concreta, oggettiva testimonianza fornita dai frammenti a disposizione del restauratore.
Sugli interventi di anastilosi si sono levate, in più occasioni, voci critiche: contro il rialzamento degli antichi templi, tale da restituirne un’immagine falsata, con le colonne esposte in piena luce anziché proiettate sull’ombra dei muri della cella, con i rocchi variamente invecchiati e corrosi, con un’alterazione indebita del sito archeologico, con il rischio di presentare solo una fase cronologica e di sviluppo del monumento. Più di recente, altri studiosi hanno messo in luce le difficoltà in termini di compatibilità, non solo chimico-fisica ma anche estetica, di durabilità dei nuovi materiali e di poca affidabilità del procedimento, nient’affatto scevro da problemi d’interpretazione e meno “oggettivo” di quanto sembri (discusse arcate “siriache” nel Canopo di Villa Adriana presso Tivoli).
Il termine deriva dal sostantivo greco femminileanastélosis, attestato dal geografo Tolomeo (circa 95-173 d.C.) con il senso di “erezione su una colonna”. A sua volta esso discende dal verboanastelóo, attestato da Plutarco (46/50-post120 d.C.) con il senso di “innalzare su una colonna o stele” o anche di “innalzare” un monumento. Il vocabolo più prossimo, nella lingua latina, è il sostantivo femminileinstauratio, rinnovamento, ricostruzione, riparazione, collegato a sua volta al verboinstauro, stabilire, disporre, restaurare, rinnovare. Più lontani sono il sostantivo femminilerestauratio, rinnovazione, rinnovamento, e il verborestauro, restaurare, rinnovare, riprendere, per la presenza del prefissore, che in composizione assume, fra gli altri, il significato di “indietro” o di “restituire allo stato di prima” o il “ripetersi di un’azione”, assente invece nel grecoaná. Comunque, nel linguaggio corrente italiano, la parola “anastilòsi” (pronunciata in tal modo secondo la consuetudine latina e “anastìlosi” secondo quella greca) ha il valore di “ricostruzione di antichi edifici, ottenuta mediante la ricomposizione dei pezzi originali”.
Significati e applicazioni moderni
Il termine è successivamente documentato, in età bizantina (VIII-IX secolo), con riferimento alla “restaurazione” del culto delle immagini contro l’iconoclastia; tuttavia il suo uso, nell’accezione odierna, è attestato dal 1925, quando N. Balanos ne fa uso in una comunicazione tenuta a Bruxelles, ed è codificato in occasione della Conferenza internazionale di Atene; infatti esso è presente nella Carta di Atene del 1931. Non è un caso, quindi, che G. Giovannoni non ne faccia cenno in un suo volume del 1929, dove parla semplicemente di “restauri di ricomposizione”, mentre in un testo del 1945 lo utilizza più volte.
La Carta del Restauro italiana del 1931-1932, la Carta di Venezia del 1964 e la Carta del Restauro del Ministero della pubblica istruzione del 1972 richiamano esplicitamente l’anastilosi. Ma, in Italia, gli interventi come quelli sul Capitolium di Brescia o, a Roma, sul tempio di Apollo Sosiano e sul tempio di Venere Genitrice sono piuttosto riconducibili al tema delle ricostruzioni didascaliche, e aventi valore di sistemazione urbana, che a quello dell’anastilosi. Di essa non hanno il carattere di certezza, essendo invece il frutto di congetture in qualche caso già oggi superate.
Quindi, più che in Italia o in Europa, dove la pratica della spoliazione dei monumenti antichi è stata costante, significative occasioni di anastilosi possono rintracciarsi nel Vicino Oriente e nell’Africa romana, dall’Egitto (Saqqāra, complesso funerario di Doser; Karnak, tempio di Ammone) al Marocco, soprattutto in situazioni di prolungato abbandono. Ecco che, accanto ai casi di elementare ma effettiva anastilosi di alcune colonne (base, fusto, capitello), ad esempio nell’area archeologica di Ostia Antica, è più facilmente a Cirene, Leptis Magna (basilica severiana), Sabratha, in Libia, oppure a Dougga (Capitolium, teatro), Bulla Regia, Uthina in Tunisia, o anche in Algeria (arco di Traiano a Timgad), oltre che in Siria (esempi di architettura bizantina del V-VI secolo) e in Asia Minore, che si possono trovare interessanti realizzazioni d’anastilosi (Tetrápylondi Afrodisia, edificio colonnato nell’agoráo frontone, rimontato a terra, del tempio di Atena a Magnesia sul Meandro). Una singolare forma di anastilosi è la ricollocazione in sito dei grandi blocchi romani in calcestruzzo, facenti parte di volte crollate, attuata prima in Libia (teatro di Leptis Magna) e poi a Villa Adriana.
Anastilosi indiretta
Si tratta d’una tecnica più di presentazione museografica dei monumenti (museografia) che di ricostruzione. Nel caso di frammenti scarsi e discontinui, ma tutti pertinenti al medesimo manufatto, si può, dopo un accurato studio storico-archeologico, ricollocarli e ripresentarli nella posizione che essi dovevano avere in origine, sostenendoli con un supporto moderno che potrebbe ben alludere alla forma dell’antico. Uno dei casi più noti e precoci, praticato in ambito ungherese sulla scia della Carta di Venezia, è la sistemazione dei resti del tempio di Iside a Szombathely, l’antica Savaria, o quella dei pochi frammenti lapidei, collocati su reti metalliche appositamente sagomate e rimesse in sito, delle perdute volte a crociera della Torre di Salomone a Visegrád.
In Italia, molto significativa è la riproposizione, nel Museo della Crypta Balbi a Roma, del rivestimento in stucco di un pilastro di età romana su un moderno sostegno metallico; così anche la sistemazione, su una struttura architettonica evocativa realizzata sul sito antico, degli elementi ceramici ornamentali (in copia) del tempio di Apollo a Veio, presso Roma.
Bibliografia
Dimacopoulos J.,Anastylosis and anasteloseis, in “ICOMOS Information”, 1, 1985, pp. 16-25; Gizzi S.,Anastilosi e rimontaggi ‘infedeli’ quali simbolo dei luoghi, inΤopos e Progetto. Il recupero del senso, Roma, 2000, pp. 53-80; Torsello B.P., Musso S.F.,Tecniche di restauro architettonico, II, Torino, 2003.